Buongiorno ⭐
Sì, non ho sbagliato giorno: arrivo in modo estemporaneo di mercoledì per portarti un regalo. Ti ricordi quello che scrivevo qualche settimana fa a proposito di vulnerabilità, fragilità e vita semplice? Ecco, non ho saputo resistere e ne ho tratto un breve percorso (quattro settimane, una mail a settimana, sempre il mercoledì) delle MiniSofie, dedicato al prendersi cura di sé.
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Penso che sia giusto parlare della dimensione della cura ogni volta che ci riferiamo al vivere in relazione (genitore con figli, insegnante con studenti; tra coniugi, tra amici…), poiché sono impliciti i concetti indispensabili di rispetto e riconoscimento dell’altro. In queste settimane, tuttavia, vorrei proprio dimostrarti come prendersi cura di sé sia un’azione profondamente politica, comunitaria, nient’affatto egoistica.
Il metodo che utilizzerò - perché è quello che mi è più congeniale - sarà un avvicinamento filosofico alla questione: ti proporrò l’analisi di alcuni termini, di brani che hanno lasciato traccia di sé nella storia del pensiero; osserveremo quello sguardo sulla realtà che, in periodi storici definiti, è stato l’ossatura della percezione di sé. Lo scopo non è didascalico né enciclopedico, non gioverebbe né a me né a te. Vorrei invece chiarire una direzione che, se riterrai corrispondente a te, potrai esplorare in modo autonomo.
Il prendersi cura di sé non è una destinazione né tantomeno un destino, ma è semplicemente - e drammaticamente - una direzione
Sapere prendersi cura di sé non è una pratica intimistica da intendersi come un allontanamento dal mondo; è invece un costante interrogarsi, riguardo al mondo, appunto, alle relazioni e alle esperienze. Prendersi cura di chi siamo significa imparare a distinguere le esperienze che erodono dall’interno da quelle che invece nutrono l’animo.
“L’uomo è ignoto a se stesso. E perché possa conoscersi ha bisogno del costante esercizio di ritirarsi dall’uso dei sensi, di raccogliersi e di concentrare la mente in se stesso”
(Agostino, De ordine, I, 1.2)
È nella sostanza del tempo - quale attributo essenziale dell’esistenza - che la cura sfocia nell’agire etico, della relazione con un altro da sé. Infatti, la sollecitazione ad aver cura di sé è opera dell’azione educativa, come enunciato da Socrate nell’Apologia. Commovente è definire l’educazione una ‘pratica di cura’: επιμέλεια è infatti il termine che indica quell’aver cura che coltiva l’essere per farlo fiorire.
Saper prendersi cura di sé sfocia nella declinazione epimeletica dell’educazione, la più ‘alta’ modalità con la quale decidiamo di assumerci la responsabilità di noi stessi, degli altri e del mondo.
Non voglio ripetermi (perché lo scrivevo qui, come ti dicevo) e quindi semplicemente riprendo dall’affermare che il primo grado della cura è quello dato dal ‘lavoro’ che è necessario per rimanere chi siamo.
Il grado della επιμέλεια può essere definito il secondo livello della cura: è l’arte dell’esistere che ha come scopo la fioritura dell’essere.
Esiste tuttavia una terza accezione che potremmo associare all’agire della cura: il prendersi cura per curare.
Oltre alla cura che interviene nella costruzione dell’essere, esiste infatti anche la cura che ripara, che ricuce le ferite (nel corpo e nell’anima). È la cura come θεραπεία, chiamata a lenire le sofferenze in modo da tenere in considerazione la dimensione della persona nella sua complessità, mentre la cura delle affezioni del corpo è invece, semplicemente, ιατρεία.
Interessante come anche un’altra lingua, l’inglese, distingua tra care e cure, a seconda che - nella prospettiva del paziente - si parli di una condizione di illness oppure di disease. Disease è la condizione di rottura dell’omeostasi dell’organismo, che va affrontata in termini di cure; illness, di contro, è l’esperienza della malattia che il soggetto fa, e perciò coinvolge anche il processo di elaborazione della malattia. La illness del paziente ha quindi come contraltare l’azione di care da parte del medico.
Qual è la radice della necessità del prendersi cura della sofferenza altrui?
Se è vero che la sostanza della vita è il tempo, la vita è un percepirsi accadere di attimo in attimo; in questo fluire di un eterno presente, l’angoscia della consapevolezza del suo inevitabile tendere alla fine viene mitigata dalla sensazione di riuscire a dare un senso all’insieme, attraverso la tessitura delle briciole. Nella sofferenza, il tempo muta qualità: esso diventa un continuum compatto, impenetrabile. La percezione che associamo alla sofferenza è proprio quella di soffocamento.
Per quanto intenso possa essere il lavoro di costruzione del proprio Sé, quello di attribuzione di un senso all’esserci ed anche quello di riparazione delle lacerazioni del Sé, è inevitabile introdurre un’ultima dimensione associata alla cura. Noi siamo esseri che vivono nella e della relazione con altri: siamo bisognosi degli altri. la nostra vita è intimamente connessa con quella degli altri. Vivere è con-vivere: Aristotele, nell’Etica Nicomachea, parla dell’essere umano come di un ente per natura πολιτικός. Entrare in relazione con altri è quindi il paradigma alla luce del quale si deve interpretare il proprio ‘esserci nel mondo’. Esistere significa prestare attenzione al volto dell’altro, sentire la vicenda esistenziale dell’altro come qualcosa che riguarda anche noi. Vivere significa progettare l’esistenza come un co-esistere.
In una concezione politica, quindi, l’essere umano assume concretezza proprio nella dimensione della ‘dipendenza’. In tale ottica, il principio di uguaglianza si declina nel sentirsi ed essere affermati uguali per quanto riguarda la responsabilità della cura degli altri.
L’inevitabilità della dipendenza influisce tuttavia anche sulle altre dimensioni della cura. In particolare, la ricerca del senso, della ‘fioritura’ dell’esistenza, non potrà mai avvenire in solitudine proprio perché noi traiamo vita dalle relazioni che modellano la materia del nostro esistere (sin da quella primaria, la relazione tra il neonato e sua madre).
La fabbrica dell’essere, allora, non è impegno del singolo ma è co-costruita dai pensieri e dai gesti di una intera comunità.
La pluralità non è solo la condizione senza la quale non è possibile l’esistenza, ma è anche la condizione per la quale ciascuno cerca il senso del suo esserci.
Come si intersecano la dimensione personale e quella comunitaria, all’interno di un simile scenario? Potremmo dire che intimamente personale è la scelta di non essere soggetto passivo dell’accadere del tempo (non dimentico che ci troviamo, io e te, in un luogo chiamato Kairos…), individuali sono la tensione e la fatica attraverso le quali cerchiamo di dare una forma originale al nostro tempo. Contemporaneamente, però, ognuno di noi percepisce che il lavoro di dare forma al proprio essere trae linfa dalla comunità di cui siamo parte, mentre rappresentiamo noi stessi in una struttura reticolare all’interno della quale riprendiamo respiro.
Uno sguardo, una voce e una carezza che accolgono non sono perciò accessori (evitabili) dell’esistere in relazione.
Ti auguro di prenderti cura di te e del tuo mondo…
Simona