Foto di Kalea Jerielle su Unsplash
Buongiorno ♡
{È il giorno del secondo appuntamento di quel percorso di ‘piccola filosofia quotidiana’ che ho chiamato “La cura”. Affrontare la vita con l’aiuto della filosofia significa imparare a domandare costantemente a se stessi, in modo da regolare la direzione del proprio vivere. Ho chiamato questi spazi MiniSofie, e si trovano qui su Kairos}
Mercoledì scorso abbiamo iniziato a riflettere su che cosa significhi ‘prendersi cura di sé’. Spero di essere riuscita nell’impresa di dimostrare che avere a cuore il sé non corrisponde ad un atto egoistico e quindi apolitico, ma invece è proprio il contrario. Infatti, mentre rappresentiamo noi stessi in una struttura reticolare all’interno della quale dobbiamo imporci di riprendere respiro, stiamo anche giustificando e valorizzando la relazione tra noi e l’altro, improntata ad una visione di fioritura reciproca. Vi è una bellissima parola del greco antico, che indica la ‘pratica di cura’: επιμέλεια. La parola indica sia l’attenzione che la sollecitudine (solus + citeo, mi metto in movimento) che l’impegno.
Vivere è quindi entrare tutti interi dentro una sollecitazione. E di attenzione tratteremo proprio oggi, in questo secondo appuntamento.
Vorrei guidarti infatti lungo alcuni passaggi di quello che mi piacerebbe chiamare un processo deduttivo: già la volta scorsa abbiamo intuìto che il prendersi cura chiede che venga attuata una prospettiva di pensiero, chiama ad una tensione e ad una dinamicità dell’animo, il cui primo passo - come vedremo oggi - è il saper applicare l’attenzione a sé.
Se pensare è quindi (già in sé) prendersi cura, esso è anche un ricucire le ferite tra le classi sociali e le generazioni.
In francese scriverei, in modo ancor più incisivo, “penser, c’est panser” (“pensare è bendare, curare”). Del fatto che il pensiero sia cura contro la frammentazione facciamo esperienza credo ogni giorno; mi piace dire che anche la cura verso noi stessi, il desiderio di sanare una inesistente frammentazione, tra ciò che siamo e ciò che facciamo, passi dallo stesso pensiero in azione.
È un traguardo irraggiungibile portare la nostra dimensione più personale a rappacificarsi con quella lavorativa? È pura utopia credere che la nostra professione sia anche di cura e possa esserlo anche di noi stessi? Io sono convinta del contrario. Il campione statistico che posso offrirti è molto poco significativo: è la mia esperienza… Però posso ispessirla di percorsi di verità, di argomentazioni e di dimostrazioni.
Spero di riuscire ad essere convincente. Ne sarei felice, perché in palio c’è (anche) la tua felicità.
Oggi, dunque, vedremo come la prima benda da porre sulla ferita sia quella dell’attenzione (andando molto oltre, anticipandolo di secoli, il concetto di mindfulness).
Poiché non voglio che l’articolo di oggi sia astratto o accademico, mi sono divertita a cercare delle domande (le troverai contrassegnate con D.) oppure delle attività (che troverai contrassegnate con A.) che possano interrogare proprio noi. Ti proporrò suggestioni che ho sperimentato io stessa in prima persona già in passato, ricavandone - devo dire - non pochi vantaggi. Per ognuna delle attività descritte, infatti, ti racconterò che cosa ha funzionato per me.
{sotto il paywall il percorso continua per gli abbonati. Magari non è per te il momento di investire nella mia attività, ma nel caso la trovassi utile o interessante, ti sarei davvero grata se volessi condividerla con qualche amico o collega. Anche con questo piccolo gesto puoi sostenere la mia ricerca e il mio lavoro. Grazie}
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