Quanto tempo, vero…?
Ricompaio - imprevista - nella tua casella di posta. Spero di trovarti in salute e in ricchezza di pensieri e progetti. Sono stata un po’ (tanto!) occupata dall’altra mia attività, quella più strettamente legata alla mia professione di formatrice. Eppure, più passavano i mesi, più capivo che i miei due progetti editoriali (Lettere ad un (giovane) docente e Kairos), queste mie due forme di riflessione, si stavano avvicinando.
E soprattutto, più desideravo che lo facessero.
Chissà, magari in un futuro più o meno lontano, esse confluiranno in un corso che ancora mi è sconosciuto…
In ogni caso, sempre amerò ruotare intorno a parole e pensiero, a linguaggi e metafore. Questa mia tensione può, a turno, esplicitarsi come formazione nei confronti dei professionisti che, come me, incontrano in classe gli studenti oppure assumere l’aspetto di una lenta riflessione come questa. Trovo, nondimeno, risuonare il medesimo richiamo alla consapevolezza di ciò che facciamo, diciamo e scriviamo.
Perché lo strumento più potente che possediamo - per affascinare chi ci ascolta o ci legge, per convincere chi è seduto ad un banco di scuola o ci ascolta in mezzo alla folla di un comizio, per ingannare nel modo più subdolo (eh sì, anche…) - è questo.
Questo che uso per scrivere e che tu stai leggendo.
È questa serie di segni che si fanno simboli, la cui conquista - quando avevamo cinque-sei anni - ci ha letteralmente spalancato il mondo. Gli studenti con i quali ‘lavoro’ (direttamente, perché abitano le mie classi, oppure indirettamente, perché sono gli studenti di coloro che scelgono di seguire i miei corsi) hanno tutti un’età in cui si è - ahimè - smarrita quell’attrazione magica nei confronti delle parole.
Dopo gli undici anni, si giunge a credere che le parole siano semplicemente un tramite. E lo sono! Perché nulla potrei conoscere di me stessa e della realtà, se non potessi rappresentare le “cose” in forma di pensiero.
Tuttavia, quel tramite chiede che si impari anche a sostare su di esso, ad esplorarne i contorni e l’origine. Senza affannarsi a correre oltre, ad agguantare il ‘che cosa significa’, ad accontentarsi del risultato raggiunto, a mettere il punto finale.
Le parole e il pensiero sono gli strumenti più sovversivi che possediamo.
E il “punto finale” è una delle scelte più eretiche che possiamo compiere.
Quando usiamo la parola parlata, possiamo giocare con le pause, le variazioni di intonazione, la gestualità corporea. Sono scelte e azioni motorie che mettiamo in campo per raggiungere quegli scopi - di argomentazione, convincimento… o inganno - ai quali accennavo sopra. Ma esistono scelte motorie anche nella parola scritta, che ‘giocano’ intorno alla moltitudine di simboli e li specificano, li puntualizzano.
E allora mettere un punto, scegliere una virgola, osare il punto e virgola sono azioni relative a quel sostare sulle parole, che è più indispensabile che accessorio. Non vengo, oggi, nella tua posta per insegnare alcunché; arrivo per suggerire.
Ti esorto a fare caso alle decisioni che la tua mano - o le tue dita su una tastiera - compiono, e a chiederti di conseguenza: che cosa dicono, esse, di me?
Le mie (lo hai certamente notato!) dicono di una ineliminabile tentazione alla pausa, di un desiderio di scavare, più che di procedere. (se ti dicessi che, un’ora fa, quando mi sono seduta alla mia scrivania, avevo tutt'altro progetto su questo appuntamento di oggi??)
Ed è un aspetto talmente connaturato in chi sono da non mancare di esprimersi con una profusione di segni di punteggiatura, che si rincorrono e si alternano. Lo faccio qui, come anche nei messaggi whatsapp (te l’ho già raccontato, vero?).
La forma è la sostanza.
E la tua, quale sostanza è?
Buona giornata e… a presto!